Intervista di Edith Checa, dalla Spagna, 2006, pubblicata sulla Rivista on line 'Jirones de Azul' e sul Quadrimestrale 'Alla Bottega', 2012, Pavia.
Gladys Sica è pittrice, scultrice, incisore e poetessa. Nacque a Buenos Aires e, da tempo e dopo molti viaggi fra il suo paese natale e l’Italia, ora vive e lavora a Milano. E’ professoressa di Scultura e Storia dell’arte (consiglio di leggere il suo curriculum). E’ corrispondente in Italia della rivista argentina d’arte e letteratura “Generación abierta”. Collabora anche con diverse riviste italiane con articoli su artisti, interviste e traduzioni di poeti. Sulla nostra rivista poniamo in evidenza questa volta la sua attività come artista, ma non possiamo dimenticare che in lei c’è una poetessa che ha nel suo “background” libri pubblicati e premi letterari. La critica Fortuna Della Porta ha detto che “la sua opera letteraria ha la funzione di penetrare il segreto e dirigere il proprio viaggio verso la terra incandescente della scoperta e della verità, invece di sottomettersi al ritmo delle convenzioni e dello scorrere superficiale dei giorni.”. Sulla sua opera pittorica il critico Giorgio Seveso si è domandato: “Quali bagliori, quali calcificazioni, quali fantasmi si proiettano sullo schermo delle tele?”
Edith Checa.
C’è un quadro tuo in particolare che mi commuove, vari in verità, ma uno specialmente, “Visione furtiva”. Quando crei sopra la tela sai cosa vai a suscitare con la tua opera? E’ questa la tua intenzione? E quando parlo di suscitare parlo di far sentire, di agitare nel profondo l’anima di ogni spettatore dell’opera.
Gladys Sica.
Durante l’atto creativo, in me, si produce uno stato spontaneo d’intimità, possiamo dire quasi “mistico”, con la realtà percepita, la totalità dell’esistenza. Per questo, sebbene la finalità ultima è quella di “permettere di bere alla nostra anima nelle acque del mistero” per citare direttamente le parole dell’epigrafe del mio ultimo libro pubblicato, durante la creazione (sulla tela, il marmo, il computer, il foglio, etc.) non ho presente l’intenzione cosciente di suscitare qualcosa nell’altro in maniera programmata. In quel momento l’atto creativo forma un uno che ingloba tutto il resto ed io mi perdo in quest’uno, in questo fare, in questo stato. Lo realizzo e lo vivo come “l’unica cosa importante da fare.”
E. Ch. Sempre si è detto nell’arte che ogni spettatore interpreta l’opera proiettando, sopra ciò che vede, i suoi propri timori, la sua propria infelicità o il suo proprio amore e allegria. Che lo spettatore, come il lettore di un libro, sta creando anche lui. Che ruolo ha dentro di te lo spettatore dei tuoi quadri?
G. S.
Non è la finalità di nessun linguaggio espressivo, credo, trasmettere un messaggio informativo che contenga soltanto un livello di lettura razionale, sennò un impulso mobilizzatore in modo che ciascuno lo interpreti dalla sua interiorità con diverse sfumature, secondo la sua esperienza culturale, sensibile, storica, sociale, di coscienza.
Per questo, è un grande arricchimento ascoltare ciò che l’altro ha da dire sul tuo libro, la tua tela, il tuo bronzo, il tuo foglio. Si scoprono sguardi nuovi, differenti angolature e l’opera continua a crescere, cambiando, maturando, incorporando molteplici significati. Personalmente, è per me la maggiore soddisfazione vedere che i miei lavori servano anche all’altro per entrare in se stesso, tutto prende senso quando brilla negli occhi dell’altro.
E. Ch.
I tuoi lettori non sanno che sei pittrice e quelli che vanno alle tue mostre neanche sanno che sei poeta. Cosa sei realmente? O non si può slegare, separare la fusione d’arte e poesia che c’è in te?
G. S.
Sì, all’inizio la poesia si sorregge da sola, la pittura attira di per sé, lo stesso succede con la scultura, con l’incisione, i cartoni, i murales, etc. ogni linguaggio è autosufficiente, senza bisogno di tanti appoggi esterni o spiegazioni imprescindibili per il respiro dell’opera stessa.
Poi, come avrai comprovato da te nel corso delle nostre conversazioni, si può vedere che tutto ciò che faccio batte in me unito dallo stesso filo; tutto appare scambiandosi e completandosi senza esclusività di un linguaggio sull’altro, tutto alimentato con la stessa intensità di ricerca e la stessa incessante passione.
Ma per scoprire questo bisogna avvicinarsi di più e, quando questo succede, gli altri ottengono una visione amplificata del discorso, in un certo qual modo, del mio universo.
E. Ch.
Utilizzi colori intensi, blu, rossi, viola e forme geometriche che danno alla tua opera una grande forza. Cos’è per te il colore? E la forma?
G. S.
I colori predominanti non sono stabili, dipendono dal periodo o dallo stato sperimentato, dallo splendore o dal fantasma che mostrano, splendori o fantasmi che tutti portiamo dentro; camminiamo, ognuno di noi, con una luce e la sua ombra.
Nei lavori, figura e sfondo procedono come una continuità –per grandi zone di macchie materiche fatte a colpi di spatola ai margini di una neofigurazione fra informale ed espressionismo- attraversate, ora, da linee nere, grigie o bianche, linee di forza che possono, a volte, dare un’altra prospettiva di visione, a volte, sviarci o integrarsi con la totalità.
Semplicemente, rendere visibili “le invisibili forze” –così come ho chiamato la mia ultima mostra personale- che ci giungono da lontano o da fuori o da dentro e che, inevitabilmente, sono parte formante (o deformante) del mistero e dell’incertezza del corso delle nostre vite.
E .Ch.
Che cosa riesce a provocare in te la creazione di un’opera? Come sorge in te una tematica?
G. S.
Come ho già detto prima, è indifferenziato in me, l’apparizione di un olio invece di un testo, di un disegno invece di un’argilla. Ma io non scelgo mai, rispondo, semplicemente, alla chiamata o a quell’energia che, in un determinato momento, si sveglia.
Che cosa lo provoca esattamente?
Forse un sovraccarico di significati, d’intensità che devono essere liberati.
Possono bastare, per mettere in movimento il meccanismo creativo in un modo feroce, una situazione forte, un’idea o un sentimento, una percezione o un’intuizione che ritorna, a volte, il suono di una parola o di una musica che rimbomba dentro un’immagine fugace che passa.
E. Ch.
Sempre sarò una pittrice frustrata. Sin da piccola mi piaceva dipingere ad olio ma non avevo pazienza, sì, questa è la parola, pazienza per dipingere. M’innervosiva non finire il quadro in un paio d’ore. Non sono mai stata capace di attendere che la pittura si asciugasse un po’ per continuare, dovevo finirlo subito. Forse c’entra molto il fatto che non disponevo di un luogo dedicato per il cavalletto e le pitture, e così dovevo poi spostare il tutto per non trovare in mezzo alla casa barattoli, macchie, disordine. Se avessi avuto uno studio tanto amplio, tanto luminoso, tanto ben organizzato per dipingere come Sorolla o altri pittori… ma non ci sono scuse, il pittore dipinge ovunque e lo scrittore scrive persino su salviette di carta o cose peggiori. O no? Come dipinge Gladys Sica? Sei spontanea nelle tue opere o laboriosa o tutte e due le cose o niente di tutto questo?
G. S.
E’ così, se un cammino ci fa innervosire e troviamo sempre scuse per posticipare o delle
giustificazioni, quello non è il nostro cammino.
Il cammino che ci appartiene ci dona una specie di pazzia o godimento che ci accompagna ed è, in definitiva, come una droga o una protezione che intercetta la sofferenza o le barriere che altri vedono, come insuperabili, nella nostra vita.
Quando dipingo, quando creo, la cosa più importante è disporre di molta libertà, specialmente mentale, io direi che la capacità del vuoto mentale è la condizione interiore di partenza.
L’opera è un ordine che nasce dal caos ed è come un miracolo, una festa.
Per questa causa, sempre secondo me, la cosa migliore è lavorare in uno studio indipendente dalla propria casa o, almeno, in un locale o spazio dove poter sporcare, provare, mescolare e accumulare idee, storie, oggetti apparentemente inutili.
L’atelier dell’inconfondibile e grande Francio Bacon –anni dopo la sua morte, nel 2001- è strato trasferito da Londra e montato integralmente in una galleria di Dublino aperta al pubblico. Al suo interno sono stati rinvenuti 7.500 oggetti tra foto, ritagli di riviste e libri, bottiglie vuote, tele abbandonate, barattoli di pittura, giornali sul pavimento e strati di pittura sovrapposti sulle pareti: tutto un disordine trasferito e rimontato come se fosse un antico affresco. Anche nel mio caso, diciamo che la casa dove vivo è, sempre, molto più ordinata del luogo in cui lavoro.
Inoltre, altra condizione fondamentale è avere tempo.
Sono giunta, varie volte, ad annullare appuntamenti di lavoro e altri programmi affermando che ero ammalata, ad esempio, solo per terminare una poesia che si era svegliata con me una mattina, senza che “lei” mi avesse avvisata.
E. Ch.
Cos’è per te la spontaneità?
G. S.
Questa spontaneità è, giustamente, questa specie di stato meditativo o come lo si voglia chiamare.
Non creo a partire da un progetto prestabilito, non ho orari fissi, non realizzo a partire da costruzioni mentali.
Vedo una grande differenza tra un costruttore e un creatore, sono due modalità molto diverse.
Poco tempo fa ho letto una definizione dello scrittore britannico Gilbert K. Chesterton che diceva che “la costruzione la si può amare solo quando la si vede, la creazione si ama già prima di esistere.”
È come se colui che costruisce da fuori, non gode veramente durante il lavoro, si sforza solo pensando al risultato.
Colui che crea fa crescere qualcosa da dentro, gode durante il lavoro in se stesso, più al di là del risultato finale di tutta la faccenda.
Creo a partire da questa spontaneità che sopravviene, quando sento la chiamata o la necessità e non posso non rispondere senza stare veramente male, sono la prima a sorprendermi e crescere insieme allo stesso lavoro, lavoro che si nutre del sangue dei miei giorni, mai di speculazioni a tavolino. a gente, alla fine, riconosce questa spontaneità, questa veracità e il tuo operato raccoglie un’eco. Un’eco, un impatto speciale che spinge chi è a contatto con l’opera a guardare in profondità, a guardarsi e a riconoscersi.
E. Ch.
C’è qualcosa che non mi piace dei pittori, è la mania di mettere come titolo “Senza titolo”. Mai ho capito perché un quadro non è intitolato e soprattutto un quadro astratto, che può avere milioni di interpretazioni. Quando trovo un quadro S/T penso “nemmeno lui stesso sa che cosa ha dipinto né cosa ha voluto esprimere”. Infine... scherzi a parte, ciascuno può fare ciò che vuole. In realtà dico questo, ma anche per me è una cosa terribile mettere il titolo a ciò che scrivo. Posso scrivere un romanzo in cinque mesi e passarne sette pensando al titolo. Vedo che tutti i tuoi quadri sono intitolati. Dai importanza al titolo? Come nascono in te?
G. S.
I titoli per me sono parte dell’opera stessa, nascono insieme con il lavoro, stanno nella tela dipinta, nel foglio disegnato, nel bronzo colpito. La completano e non sono mai arbitrari. Può darsi che qualcuna nasca senza titolo... ma questo succede piuttosto quando si tratta di lavori preparatori o bozzetti che, dopo, si decide di presentare in pubblico. Nella mia poesia, i titoli corrispondono, quasi sempre, all’ultimo verso. Ma neanche in questo caso è una decisione presa a priori, uno schema fisso o predeterminato.
E. Ch.
L’ultima fase dopo di creare un quadro è consegnarlo al mondo. Tu stessa hai detto prima che è proprio in quel momento che il lavoro si completa, precisamente, quando brilla negli occhi dell’altro. Suppongo che è lo stesso quando pubblichi un libro e lo presenti e comincia a circolare fra i lettori, cessa d’essere tuo, si rende indipendente e… lo lasci libero come un figlio.
G. S.
Sì, io ti commentavo in un’altra opportunità che si possono ascoltare, a volte, i lamenti dei quadri, le sculture o i libri che ti ricordano la loro voglia di muoversi, andare per il mondo, conoscere gente. Si sente come il dovere, di fronte alla propria creazione, di darle l’opportunità di vivere la sua propria avventura. Questo non sempre succede nel tempo sperato, è come un innamoramento: non si può prevedere quando si realizzerà l’incontro decisivo con il collezionista o il gallerista, con il lettore o l’editore. Ma è nostra responsabilità, in ogni modo, permettere e curare l’incontro dell’opera con il pubblico, dentro le nostre possibilità. E’ per me di vitale importanza il rapporto che si stabilisce in un’esposizione o in un reading con la gente, è, molte volte, un rapporto magico che si perpetua nel tempo. Le persone ti raccontano quello che vivono, pensano o immaginano a partire dalle poesie, le pitture, le immagini, le conversazioni. A volte, t’invitano nelle loro case per mostrarti dove hanno collocato la scultura o il quadro comprato, e non c’è niente di meglio che costatare quante coccole riceve la tua antica creatura.
E. Ch.
So che ti senti “purosangue italiano al cento per cento” e che ti viene da lontano, dall’interno di te stessa, dai sogni, come qualcosa di misterioso della tua vita. Forse per quello hai fatto tanti e tanti viaggi dall’Argentina in Italia, come se qualcosa ti chiamasse. E come ignorare questa chiamata del cuore, dell’istinto, dell’intuizione? Ora hai tra le mani un romanzo, già hai la bozza. Mi hai detto che puoi paragonare la creazione della poesia con la pittura, succede lo stesso con il romanzo e la scultura?
G. S.
Giustamente di queste chiamate ancestrali, dei sogni misteriosi, degli eventi con questa sincronicità junghiana che guidano la nostra vita parla il romanzo, di un’esperienza di un primo viaggio. Il viaggio come percorso non solo geografico o esteriore se non, soprattutto, spirituale o evolutivo, di ricerca interiore. Sebbene si trovi allo stato embrionale, poiché solo il cuore o il nucleo centrale è terminato, non si sa quanto cresceranno ancora i rami dei temi e i personaggi secondari. Come ho già spiegato in un’altra nostra conversazione, dunque, in questo primo approccio al romanzo, contrariamente a quanto aspettato, mi trovai a navigare in acque comode. Il processo fu quasi di “rivelazione”, diciamo che scoppiò, ex abrupto, durante una vacanza a Venezia: stavo dormendo, mi alzo, vedo come in un film tutte le sequenze, scrivo i capitoli con i loro titoli avendo ben chiaro il contenuto generale di tutto il testo e torno a coricarmi. Ovviamente quando qualcosa esplode, dietro esiste un lavoro di gestazione –segreto o meno- d’anni, mesi, settimane o di tutta una vita, senza dubbio. Il fatto è che io non lo aspettavo, arrivò senza preavviso e mi monopolizzò tutte le forze e i tempi. Questa visualizzazione –sebbene elementare- di tutto lo schema organizzativo prima di cominciare la scrittura, mi accade soltanto nella realizzazione di un’opera scultorica, dove è necessario conoscere che cosa si vuole togliere per poter piantare uno scheletro di sostegno o per estrarre una determinata idea da una pietra. Almeno a me –perché in verità ogni autore ha le sue ricette o i suoi rituali e, sempre che servano a qualcuno, vanno rispettati- questo non mi succede in assoluto con la poesia o la pittura ad esempio, poiché in queste la creazione procede solo in minima parte organizzata coscientemente, la gran parte fluisce seguendo movimenti sconosciuti, impensabili. Può darsi che avevo bisogno di un mezzo per dire più cose allo stesso tempo o che avevo il desiderio di raccontarlo più direttamente o di mostrarlo in un altro modo, una vetta che offre altre possibilità espressive, una strada nuova per me. Vedremo dove mi conduce…
E. Ch.
Suppongo che in molte occasioni avrai unito la tua poesia con la tua pittura. Che ha significato per te unire i tuoi lavori visuali alla poesia di Luis Benítez, per esempio, un altro poeta argentino della tua generazione?
G. S.
Sì, l’abbraccio fra differenti linguaggi è qualcosa che può potenziare un’idea, un lavoro; m’interessa farlo anche con la musica. L’unione delle mie immagini con le parole di Luis Benítez risultò un incastro naturale, quasi lo stesso mare, dietro, che si agita. Inoltre, ci sono i ricordi… nell’anno 1975 noi c’incontrammo leggendo il manifesto surrealista di André Breton, Paul Eluard, Louis Aragon, il geniale Antonin Artaud, ecc. all’interno di un gruppo d’adolescenti musicisti, poeti e deliranti (credo che solo Luis era maggiorenne) riuniti tramite un annuncio, nella piazza di Buenos Aires, che porta il nome dello scrittore argentino Roberto Art, della rivista underground “Expreso Imaginario”. Decadi più tardi, presentò e lesse brani dell’altro mio libro durante l’inaugurazione della mia mostra Personale nel quartiere di San Telmo, sempre a Buenos Aires, che realizzai prima di tornare a partire. Anche se il nostro contatto fu quasi sempre sporadico, si può vedere che le coincidenze di argomenti, oltrepassano la questione dei territori e delle situazioni personali, lasciano trapassare ricerche sincroniche e profonde con il sigillo di questa contemporaneità.
E. Ch.
Che significa l’Argentina nel tuo presente e che significa scrivere in spagnolo in Italia?
G. S.
L’Argentina rappresenta il luogo dove sognare, l’Italia il luogo dove concretizzare questi sogni.
L’Argentina è la mia giovinezza, un vivere di eccessi e contrasti, la poesia, soprattutto è la poesia… il vincolo del linguaggio è qualcosa difficile da spiegare, il linguaggio dà un senso di appartenenza immediata, primigenia.
Vivere in un paese con un’altra lingua, è una sfida maggiore per chiunque lavori con le parole, può essere demolitore, ma anche un punto di forza.
L’Italia è la mia maturità, un vivere con un ritmo di lavoro preciso e quasi frenetico, l’arte, soprattutto è l’arte... in Italia il sentimento del colore nella gente è fondamentale, atavica.
Come vedi, mi muovo in bilico tra due amori: la poesia e l’arte, Argentina e Italia, impossibile prescindere da uno dei due, non c’è modo di scegliere per me.
E. Ch.
Infine, che ti aspetti dalla poesia, dalla pittura, dal tuo romanzo, dall’Italia, dalla vita stessa?
G. S.
Continuare a vivere, miracolosamente, facendo il mio lavoro con dignità, è la cosa primordiale. Dopo se questo movimento s’incrementa, arriva a più persone per aprire una porta diversa nella loro vite o avvicinare ad altri con cui realizzare cose in sintonia con il mondo, sia il benvenuto.
Spero, infine, di continuare a vivere l’avventura di rimanere viva ricreando in libertà, nonostante tutti i terrori e i punti oscuri del nostro tempo e del nostro pianeta, la magia della vita.
*Edith Checa (Sevilla, 1957-Madrid, 2017) giornalista, scrittrice e poetessa spagnola.
Rotos los poemas
No es nada definitivo
el límite imaginado
de lo tolerable.
El fracaso del olvido,
ciertos excesos
tienen negada la resignación.
Aletean las memorias
por sobre el verano:
mis gestos imprudentes,
tu abrazo alcohólico.
No hay nada más que festejar
recuerdo, dijiste.
Nuestra unión
sostenida por precarios lazos.
No hay nada que festejar
entonces, me dije.
Rotos los poemas
nada podría salvarnos.
Rotti i poemi
Non é per nulla definitivo
il limite immaginato
del tollerabile.
Il fallimento dell'oblio,
certi eccessi
hanno negata la rassegnazione.
Aleggiano le memorie
sull'estate:
i miei gesti imprudenti,
il tuo abbraccio alcolico.
Non c'è niente da festeggiare
ricordo, dicesti.
La nostra unione
sostenuta da precari legami.
Non c'è niente da festeggiare
allora, mi dissi.
Rotti i poemi
niente ci avrebbe salvati.
Gladys Sica
dal libro "Ternura animal" (Tenerezza animale)
Ed. La sociedad de los poetas vivos, 1997, Buenos Aires.